Il caso del “Catalogo delle donne single di Lecco”. L’illecito trattamento dei dati personali e la diffamazione

02/11/2023

Fattispecie

Correva l’anno 2017 quanto N. A. M. decide di pubblicare il “Catalogo Donne Single di Lecco”, 95 pagine, scaricabile in pdf su un sito di self publishing al prezzo di 7,01 euro, Iva compresa, sotto lo slogan “5 euro, il costo di un drink”.

In buona sostanza, N. A. M. ha raccolto in un unico file i profili Facebook, pubblici, di tutte le sedicenti single di Lecco, per un totale di 1.218 nominativi, di età variabile dai 14 anni ai 74, trascrivendone nome, cognome, immagine, e informazioni in ordine all’orientamento sessuale, professione (tra loro insegnanti, medici, infermiere, giornaliste, studentesse…); ciò, senza che alcune delle donne “tracciate” avesse mai dato l’assenso al trattamento dei dati.

Non solo. L’editore avrebbe anche richiesto documenti anagrafici ai Comuni di residenza delle donne, spacciandosi per avvocato, un ignaro professionista siciliano per il quale aveva lavorato anni prima.

Il catalogo è stato subito notato, tanto che alcune vittime si erano addirittura riconosciute in alcuni dei profili proposti. Tuttavia, nonostante l’immediato ritiro dalla commercializzazione, parecchie copie erano già state vendute (e replicate via mail e chat).

Nell’immediatezza dei fatti, alcune delle vittime hanno proposto denuncia per i reati di trattamento illecito di dati personali e diffamazione, cui è seguita l’instaurazione di un lungo e articolato processo.

Durante il giudizio, sono state sentire 26 delle donne vittime del “catalogo”, alcune delle quali sono addirittura scoppiate in lacrime: come ha spiegato l’avvocato difensore delle donne costituitesi parti civili, “alcune di loro hanno subito un trauma profondo, sono provate psicologicamente e non si sono ancora riprese perché si sono ritrovate a loro insaputa su quel catalogo, con tanto di orientamento sessuale e di indirizzi, altre sono tuttora seguite da uno psicologo”.

Il processo di primo grado e secondo grado

Si è quindi subito aperto il procedimento penale nei confronti di N.A. M. presso il Tribunale di Lecco, che, con sentenza del 24.05.2022, confermata anche in appello, ha condannato l’imputato alla reclusione pari ad 1 anno e sei mesi (con pesa sospesa), oltre ai risarcimenti civilistici, per trattamento illecito di dati personali, diffamazione aggravata mediante altre forme di pubblicità (il social network) e sostituzione di persona.

Si legge, in motivazione, che il fatto che i dati personali fossero già in un certo senso pubblici - in quanto comunicati e riportati sulla bacheca di Fb - non esclude l’illiceità del trattamento, del tutto estraneo alla finalità per le quali era stato in origine richiesto.

Oltre al diritto alla privacy, ogni titolare ha la legittima aspettativa che i suoi dati, quandanche usciti dalla propria disponibilità, vengano trattati in modo lecito e coerente, circostanze del tutto assenti anche alla luce delle dolorose testimonianze delle donne offese, che si trovarono poi al centro di strane offerte di amicizia.

Il giudizio in Cassazione

N.A.M. tuttavia ricorre in Cassazione.

Secondo la sua versione di fatti, il reato non sarebbe stato integrato: egli, infatti, si sarebbe limitato ad utilizzare una funzionalità del social network Facebook per mettere insieme dati (in particolare, lo stato di single di varie donne) che le utenti avrebbero autonomamente pubblicato sullo stesso sito, senza apporre alcuna restrizione.

N. A. M, dunque, avrebbe usato questi dati per una finalità compatibile con quella per cui le utenti Facebook avevano prestato il consenso, sin dall'inizio, sulla medesima piattaforma: gli stessi dati, peraltro, sarebbero stati accessibili a chiunque, anche non iscritto allo stesso social network, mediante una semplice ricerca di nome e cognome su qualunque motore internet. In altri termini, l'aver prestato il consenso all'utilizzo di questi dati su Facebook, con modalità aperte e senza restrizioni, li avrebbe resi disponibili a chiunque avesse avuto a disposizione una connessione.

Inoltre, sempre secondo la propria difesa, le persone offese non avrebbero subito un effettivo pregiudizio, dacché la qualifica di single non conterrebbe in sé alcuna accezione negativa, così come lo slogan con cui la pubblicazione dell'elenco era stata accompagnata.

Nonostante le menzionate argomentazioni, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di appello e quindi la condanna inflitta a N.A.M. (sent. cassazione penale sez. III, 27/04/2023, n.33964).

Le motivazioni della condanna

Secondo la Corte di Cassazione i dati utilizzati da N.A.M. hanno natura certamente personale, come meglio definito dal Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, sulla protezione dei dati, art. 4, n. 1, secondo cui per dato personale si intende “…qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile ("interessato"); si considera identificabile la persona fisica che viene individuata direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all'ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale".

Su questa base, è stata quindi rigettata la tesi della difesa secondo cui sarebbero state le stesse donne coinvolte a consentire preventivamente l'estrazione dei dati in esame, per il sol fatto di averli loro stesse inseriti sul social network senza limitazioni di accesso e, dunque, rendendoli visibili a chiunque, compreso il ricorrente.

Infatti, N.A.M. non si era limitato a ricercare sulla piattaforma i riferimenti di donne single residenti in Provincia di Lecco ma, all'insaputa di queste, li aveva estrapolati, catalogati e - fotografie alla mano - ne aveva fatto un elenco, messo in vendita online.

E’ stato quindi ritenuto evidente l'indebito trattamento dei dati personali: se era vero, infatti, che tutte le persone offese avevano spontaneamente fornito proprio quei dati, in fase di iscrizione al social network o in un momento successivo, era altresì vero che ciò era avvenuto esclusivamente - ed esplicitamente - con riguardo alla funzione tipica della piattaforma, motivo della stessa iscrizione, quale la creazione di una comunità (community) di amici, conosciuti o da conoscere, con i quali discutere e condividere pensieri su qualunque argomento.

Solo questa finalità, quindi, era stata espressamente accettata da tutte le persone offese, e solo per lo stesso scopo queste avevano fornito i propri dati personali.

Nessuna delle donne coinvolte, per contro, aveva mai prestato il consenso - da intendersi libero, specifico, informato ed inequivocabile (art. 4, n. 11, Regolamento citato) - per un uso diverso degli stessi dati, men che meno da parte di un soggetto sconosciuto, il quale, dunque, non si era limitato ad una gestione degli stessi omologa a quella compiuta in automatico dal sistema, con mera e meccanica trasposizione in un file PDF, come affermato nel ricorso, ma si era reso responsabile di un trattamento palesemente illecito di dati personali altrui.

Al riguardo, la Corte ha ricordato come non abbia alcun rilievo il fatto che i relativi profili fossero "pubblici", in quanto i dati personali erano stati comunque inseriti dalle interessate nell'unica ottica che le aveva indotte ad iscriversi al social network, senza poter essere utilizzati - arbitrariamente - per finalità e scopi differenti.

In altri termini, secondo i Giudici di tutti e tre i gradi di Giudizio, la pubblicazione di un dato personale sul proprio profilo social non può ritenersi equivalente ad un'indiscriminata autorizzazione a fare, di quello stesso dato, un qualunque uso, da parte di chicchessia, al di fuori di ogni consenso dell'interessato.

Ma non solo.

La Corte ha altresì evidenziato come N.A.M. sapesse che le persone indicate nell'elenco non avevano mai prestato alcun consenso all'utilizzo dei propri dati personali per finalità commerciali, finalità ricercata da N. A. M. il quale aveva anche reclamizzato l'offerta con una frase - "Al costo di un drink, quanto tempo impiegheresti per cercarle tutte?" - che esprimeva appieno il fine economico dell'iniziativa, realizzata prescindendo da qualunque consenso delle interessate.

Con riferimento, poi, al pregiudizio patito dalle persone offese, la Corte ha specificato come “…se è vero che il termine "single", di per sé, non possiede alcuna valenza negativa, è anche vero che la sua accezione può assumere un significato particolare - non accettato dalle interessate - se contenuto in un elenco realizzato inserendovi solo donne accomunate dallo stesso "status", realizzato a loro insaputa e venduto online - "al costo di un drink" - al solo fine di rendere nota a chiunque l'assenza di legami sentimentali”.

Proprio un tale effetto, peraltro, era stato descritto da alcune delle persone offese, che, a seguito della pubblicazione dell'ebook, si erano viste contattare da uomini sconosciuti, con l'esplicita finalità di incontrarsi a scopo sentimentale o sessuale; un effetto che N. A. M. aveva di certo previsto, mettendo in vendita un elenco il cui unico scopo era quello di far conoscere a chiunque quante e quali donne residenti in Provincia di Lecco si fossero dichiarate single sulla piattaforma Facebook.

Secondo la Corte, quanto sopra ha reso evidente la consapevolezza della condotta illecita, e dunque del dolo di reato, consistito proprio nell'utilizzare il dato personale altrui a propri fini commerciali, in difetto di qualunque consenso ed al di fuori della stessa piattaforma Facebook.

Ancora al riguardo, infine, la sentenza ha sottolineato che, significativamente, tutte le persone offese avevano accusato un malessere, sotto forma di umiliazione, di sconcerto e di frustrazione, una volta appreso di essere state inserite nella pubblicazione in oggetto: specificatamente "la creazione di un catalogo, contenente l'elencazione minuziosa e sistematica di donne, con l'esplicita intenzione di rendere nota l'appartenenza al territorio di (Omissis) e agevolarne così l'individuazione perché single, ma prima ancora perché donne, tutte reperibili "al prezzo di un drink", comporta una consapevole denigrazione del soggetto. Da ciò, l'inevitabile compromissione della dignità della vittima, coinvolta in un sistema di catalogazione ed etichettatura, alfine di essere individuato e scelto da un pubblico di fruitori”.

Fonti

https://www.laprovinciadilecco.it/stories/lecco-citta/il-catalogo-donne-single-fa-gia-scuolaora-su-facebook-la-privacy-e-piu-tutelat_1301035_11/

https://www.federprivacy.org/strumenti/accesso-ristretto/aveva-messo-in-vendita-online-un-catalogo-di-1-218-ignare-donne-single-tratto-da-facebook-condannato-dal-tribunale-di-lecco

Il Sole 24 Ore del 6 settembre 2021

https://www.ilcittadinomb.it/news/cronaca/catalogo-online-delle-donne-single-la-cassazione-conferma-la-condanna-per-lautore/

https://www.vanityfair.it/article/catalogo-single-condanna-definitiva

https://www.leccotoday.it/cronaca/catalogo-donne-single-autore-condannato.html

Avvocato Micol Missana