"L'avvocato deve osservare, nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, la diligenza propria del professionista, che comporta l'obbligo su di lui incombente sia all'atto del conferimento del mandato, che nel corso dello svolgimento del rapporto, di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; l'avvocato deve inoltre richiedere al cliente di fornire tutti gli elementi necessari o utili in suo possesso, nonché sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. Incombe sul professionista l'onere di provare la regolarità e diligenza della condotta mantenuta, precisando che il rilascio da parte del cliente della procura alle liti è insufficiente a tal fine, posto che il mandato non può garantire la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio".
La massima in commento, che sembrerebbe imporre in capo all'Avvocato un preciso dovere (civilistico, e non - solo - deontologico) di dissuadere il cliente e di rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi, offre un interessante spunto di riflessione.
Il professionista, infatti, sarebbe tenuto non solo a rappresentare tutti i possibili esiti del giudizio, elencando tutte le eventualità più o meno probabili derivanti dalle attivazioni giudiziali (circostanza quasi diabolica, per dirla in termini processual-civilistici), ma anche debba dissuaderlo dall'intraprenderlo e, anzi, debba addirittura rifiutare la prestazione intellettuale che il cliente richieda, pure allorquando essa non sia sostenuta da una ragionevole certezza di successo (spingendo l'avvocato ad attuare un giudizio prognostico sull'esito dello stesso, facendosi portavoce non solo delle istanze del proprio assistito, ma anche di quelle dell'avversario e, poi, decisorie del giudice).
Lecito domandarsi come si possa adeguatamente informare il cliente di tutti i profili di rischio del giudizio, se non immaginandosi una sorta di "avvocatura difensiva", mediante - ad esempio - la predisposizione di lettere di incarico e/o preventivi dal contenuto articolato e complesso, divenendo, nella sostanza, veri e propri pareri professionali pro veritate (peraltro, con il rischio, non remoto, di incolpevolmente tralasciare qualche sfumatura o riferimento, sostanziale o giurisprudenziale che ben potrebbe essere in futuro eccepito al professionista).
Ciò, al pari di come si possa considerare come "palese" l'esito di un procedimento, attesa la natura altamente aleatoria dello stesso (che, anche in riferimento alle difese avversarie, potrebbe, in corso di causa, assumere pieghe e profili diversi rispetto alla sua fase iniziale e non precedentemente prospettati) e considerata altresì la recente tendenza della nostra giurisprudenza a modificare il proprio orientamento (di fatto, anche nel nostro ordinamento di civil law stiamo assistendo a vere e proprie overruling giurisprudenziali).
Il rischio che si corre è la deriva del ruolo dell'avvocato come mero portavoce delle istanze di chi "avrebbe più ragionevolmente ragione", svuotando quasi di contenuto l'art. 24 Cost., senza considerare che una interpretazione così estensiva del canone di diligenza del professionista, suggerirebbe la possibilità, per l'assistito, di rifiutare il pagamento dell'onorario, allorché la causa si sia risolta in senso sfavorevole sulla base di questioni non precedentemente prospettate dal legale.
Concludendo, seppur sia indubbio che l'avvocato debba mettere la parte in condizione di determinarsi consapevolmente rispetto all’azione giudiziale (e sul punto è senz'altro utile rammentare che, proprio in relazione agli obblighi di informativa, l'attuale art. 27 comma 7 del codice deontologico forense stabilisce che «l'avvocato deve comunicare alla parte assistita … altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso»), è altresì innegabile come la decisione finale competa esclusivamente al cliente, risultando così quantomeno di dubbio profilo il supposto dovere dell’avvocato di addirittura rinunciare all’incarico se – in caso di alto rischio di esito negativo del procedimento – questi voglia comunque proseguire.
Chiaramente, è necessario indagare ogni singola fattispecie nel merito; tuttavia, alla luce della massima in esame, si può dire essere in ogni caso auspicabile un cambio di rotta interpretativo nella giurisprudenza delle corti territoriali (e di legittimità), nella consapevolezza che l’avvocato, seppur operatore di diritto, sia anche quest’ultimo una parte, lato sensu, nei giudizi e che il ruolo costituzionalmente allo stesso attribuito è quello di essere a presidio del diritto di difesa, comunque inteso.